"Neighborhoods" dei blink-182: la morte e tutti i suoi amici

Abbiamo recensito l’album tanto atteso e sicuramente dark del ritorno dei Blink in Bigger Than the Sound.

Nel 2003 i Blink-182 hanno deciso che fosse il momento di appendere al muro i loro dottorati per le barzellette spinte (presumibilmente ognuno nel proprio ufficio, che è dove finiscono tutti gli attestati di laurea) e continuarono con un atteggiamento più serio. Le ragione dietro a questa decisione erano molte — le nuove prospettive che arrivavano con la paternità, un decennio passato in tour, registrare con Robert Smith — anche se, a dir la verità, il loro nuovo atteggiamento scuro non è mai sembrato star loro bene, soprattutto perché, a quel punto, erano più conosciuti per avere avuto delle porno star nei loro video e per aver dato ai loro album dei titoli come Take off Your Pants and Jacket e Enema of the State.

Di sicuro negli otto anni passati dal loro ultimo album sono cambiate molte cose. I Blink-182 si sono divisi nel 2005, successivamente si sono beccati sulla stampa, hanno tentato di conquistare il mondo con progetti no-Blink, hanno dovuto sopportare le morti del produttore di lungo corso Jerry Finn e dell’amico Adam “DJ AM” Goldstein e alla fine del 2008 il batterista Travis Barker si è ferito gravemente in un incidente aereo che ha ucciso quattro persone, tra cui due dei suoi collaboratori.

Inutile dire che hanno guadagnato il diritto di essere seri. E nel loro tanto atteso album Neighborhoods (uscirà il 27 settembre) hanno concentrato 96 mesi di dubbi, buio e morte in solo 49 minuti — questa è la durata dell’edizione deluxe — e facendolo in modo completamente convincente. Per la prima volta nella loro carriera, i Blink sembrano adatti al loro atteggiamento scuro. Purtroppo perché hanno partecipato a troppi funerali.

I testi di Neighborhoods sono la cosa più cupa che i Blink abbiano mai fatto, infestati da spettri sia reali — depressione, dipendenza, perdita — che immaginari. La morte è una costante, che appare in canzoni come tonante “Natives” (“Maybe I’m better off dead”), la scricchiolante “After Midnight” (“Standing close to death”) e la ringhiante “Hearts All Gone” (“Let’s drink ourselves to death”). Anche il primo singolo “Up All Night” si evidenzia per un ritornello strabiliante: “All these demons/they keep me up at night”. C’è una ragione per cui la prima canzone dell’album si intitola “Ghost on the Dancefloor”: Neighborhoods sembra meno un disco rock di quanto non faccia un esorcismo.

Musicalmente è praticamente notturno, mischiando la fioritura elettronica del progetto +44 di Mark Hoppus e Barker e la grandiosità delle luci laser degli Angels & Airwaves di Tom DeLonge in un suono che richiama niente di più di strade scure e distese nere, soprattutto della varietà delle periferie (il campo dietro il 7-Eleven, il vicolo cieco illuminato da un solo lampione, ecc.). Anche gli accordi — e ce ne sono molti — sono scuri, come se DeLonge abbia immerso la sua Epiphone nell’inchiostro. Il basso di Hoppus rimbomba inquietante e la batteria di Barker è veloce, graffiante e completamente paurosa in alcuni punti.

Detto questo, non è tutto negativo. I Blink sanno ancora come scrivere un ritornello straordinario e, molto più degli accordi, ce ne sono molti in Neighborhoods. In molti casi forniscono una breve tregua dalla desolazione generale: “Wishing Well” ha DeLonge con “la-da-da-da-da”, il gancio per “Love Is Dangerous” è praticamente allegro e, naturalmente, c’è la summenzionata “Up All Night”, che scoppia e scricchiola come i Blink del passato.

E parlando dei vecchi Blink, beh, qui se ne sono andati in gran parte (l’inizio sintetizzato e con un’infarinatura di stelle di “Ghost on the Dancefloor” rende noto questo fatto). Ma dato tutto quello che c’è andato nella lunga gestazione di Neighborhoods — è raro che un album che ci ha messo così tanto per essere finito contenga una canzone, “Kaleidoscope”, su quanto tempo ci voglia per finire le cose — avete certamente potuto capire questa trasformazione. I Blink sono cresciuti, soprattutto perché sono stati obbligati dalla loro vita, e, volenti o nolenti, questa maturità sta loro bene.

Neighborhoods è un lavoro profondo, dark e completamente autobiografico e, quando Hoppus canta “Hold on, the worst is yet to come” (nella scoppiettante “MH 4.18.2011”), non gli credete veramente. Il peggio è passato. Da qui in avanti andrà tutto bene.

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